venerdì 13 maggio 2016

Un mia recensione di "Adepti" Ingar Johnsrud (2015)

La fascia gialla di copertina creava già diverse aspettative "La nuova stella del crime scandinavo che tutti paragonano a Jo Nesbø. Venduto in 20 paesi". Mi sono detta che per essere un primo romanzo, gli editori sparavano parecchio alto. Forse mi ha stimolato una sorta di sfida a darne una mia personale valutazione, considerandomi una lettrice di Jo Nesbø e del "crime" di autori del nord Europa. Non posso nascondere che a me le sfide piacciono e stimolano parecchio.
Così approfitto dell'occasione di un regalo e ne acquisto una copia per un familiare, sapendo che poi l'avrei chiesto in prestito. La manovra, non proprio pulitissima, è stata colta dal malcapitato che ha rispedito al mittente e quindi, una volta "smascherata", me lo sono ritrovata subito tra le mani.
La trama mi ha preso parecchio, tanto che ci ho messo davvero poco a divorare 511 pagine, come avrà notato chi ha letto il post che racconta il mio mese di maggio.....
Difficile star dietro ai personaggi, forse perché i nomi scandinavi e/o norvegesi non risultano facilissimi ad una prima lettura. E in questo caso si assiste alla presenza di numerosi reti di persone in diversi contesti, quindi bisogna essere piuttosto concentrati e a volte ritornare indietro a qualche pagina precedente per fare una sorta di ripasso. Questa dinamica dei nomi mi era già capitata con la lettura di "Cent'anni di solitudine" di Gabriel García Márquez, ma in quel caso la difficoltà era sui nomi che si ripetevano uguali, tramandati di padre in figlio, ed era per me faticoso star dietro all'albero genealogico e capire chi fosse il padre, il figlio o il cugino. Ma in entrambi i casi ne sono uscita con qualche piccola soddisfazione.
Con Marquez ammetto di aver avuto qualche cenno di rinuncia, ma mi sono detta che non potevo perdermi un capolavoro, e in quel caso ho proprio portato a casa l'apprendimento che ad alcuni testi, ostici all'esordio, va dato tempo e fiducia per poi goderne la potenza dello sviluppo e del finale.
Tornando invece al nostro Ingar Johnsrud, non mi sembra di aver vissuto lo stesso percorso: nel senso che lo sviluppo mi ha coinvolto molto, ho sentito proprio la spinta ad andare avanti a capire, scoprire stimolando associazioni, ipotesi, ricerca di fatti. Ma il finale non è stato degno. Non ha avuto quella qualità di seguire uno sviluppo così avvincente. Mi sono presa una pausa di riflessione prima di permettermi di dare questa importante bacchettata al finale: mi sono chiesta se un finale aperto e/o enigmatico/ermetico per un giallo fosse incisivo e/o suggestivo e ho provato a esplorare le mie congetture e fantasie sulle possibili interpretazioni che mi si aprivano. Non so, forse la metafora che mi sembra azzeccata è quella "dell'amaro in bocca", puoi chiederti e accettare che il gusto amaro sia uno dei possibili effetti dell'esperienza umana, ma alla fine rimane l'amaro.
La lettura è semplice e scorrevole. La psicologia dei personaggi abbozzata e non affondata.
Mi è venuta voglia di rileggere Nesbø. A presto il secondo capitolo della saga "E' Ingar Johnsrud il nuovo Jo Nesbø?". Vi saprò dire.

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